lunedì 6 agosto 2012

Il tramonto di Asafa Powell, un campione giunto all'inevitabile declino

Parliamo un po' di Asafa Powell. Sì, quello che ha chiuso la finale dei 100 zoppicando in 11"99. Un marziano alla rovescia, con un inguine ormai al limite della sopportazione, non più in grado di competere con i più forti e a rischio per la staffetta. Asafa Powell, quell'Asafa, è chiaro che non c'è più. Non c'è più l'Asafa dei record del mondo. Era un grande, grandissimo velocista. E dobbiamo essergli grati. Se esistono Bolt e Blake, se la Giamaica è capace di correre la staffetta 4x100 in 37", persino se la Iaaf un giorno ha deciso di ristrutturare il campo dove lui una volta si allenava, e dove si è allenato Bolt, e dove tanti giamaicani hanno capito di poter essere competitivi, in fondo è merito suo. E' stato il primo della nuova era. Non è mai stato un cuor di leone, ma che allenamenti, che grinta quando non c'era nessuno (o quasi) a vederlo. Asafa è anche un po' nostro. Veniva in Italia ad allenarsi.

Le sue prime gare importanti, nel 2002, a Rovereto, Lignano Sabbiadoro. Poi Rieti. Ma a quel punto era già famoso. Asafa era il ragazzo dal talento smisurato che col suo gruppo, col suo ingombrante e burbero allenatore, Stephen Francis, con Sherone Simpson e gli altri, entrava nello Stadio dell'Acquacetosa, a Roma, l'ormai devastato ma mitico Stadio delle Aquile, il "Paolo Rosi", alla chetichella di mattina presto passando sempre dal cancello posteriore. Dormivano alla foresteria del Giulio Onesti. Asafa non aveva neppure
la tv in camera. Gli piaceva Roma, gli piaceva pensare di sentirsi un po' a casa. Finché la pista ha retto, loro prima del Golden Gala erano lì. Stephen Francis teneva tutti a rapporto sotto gli alberi del boschetto a fianco alla partenza dei 110. Dove una volta c'era anche una fontanella funzionante. Si buttava sulla pista e parlavano, anche un'ora. Non si sa di cosa. Di vita astratta e di programmi pratici. Francis si faceva avvicinare di rado dagli altri, come noi, che ci allenavamo per la "nostra" atletica di atleti d'altro livello. I ragazzi erano più aperti. Ma non troppo. Nel giugno del 2005 Asafa fece il suo primo record del mondo ad Atene (9"77). Quando tornò fece fatica a liberarsi dagli applausi e dalle pacche sulle spalle.

Francis si portava sempre dietro la macchina della fotocellula. Vedere Asafa accelerare, in spinta, in allenamento, era qualcosa di spaventoso. Tempi pazzeschi sui 40 lanciati (3"20). Un vento. Non si può capire se non lo si prova cosa voglia dire guardare (sentire) un velocista che ti sfreccia a 40 all'ora a cinque metri di distanza. Con le decelerazione Asafa usciva dalla pista dall'altra parte dell'impianto. Faticava di più sulle ripetute lunghe. Che erano però un esempio di come anche un grande velocista non debba mai esagerare, mai sfinirsi, perché poi la paghi. Non ha senso rovinarsi il fisico. Sì, nelle distanze più lunghe era davvero un piantagrane. Francis si metteva sull'albero e fischiava il via. Powell soffriva come un matto quando si trattava di fare le ripetute sui 200. Non veloci, intorno ai 27", che per un velocista di livello è come passeggiare, li farebbe anche correndo sulle braccia o all'indietro. Lui si accasciava e lamentava fastidi che non hanno mai, mai una volta, intenerito il boss. "C'mun 'sssafa!!!", si sentiva urlare dall'albero. E cadevano foglie. Quando gli si chiedeva se era vero che tifava per Totti, Asafa emetteva una specie di rantolo che più o meno equivaleva a un sì, ma la storia di Totti e Asafa è un mito accresciuto dal bisogno di collegare il nome del giamaicano alla città di Roma. Francis teneva sempre tutti sotto controllo. Urla becere dal suo rifugio volevano dire che era ora di finirla coi salamelecchi con gli altri frequentatori della pista. Sherone Simpson venne ribattezzata "Vomitina" perché ogni volta che l'allenamento si faceva più "lattacido" lei dava di stomaco. Poi, quando la pista era peggiorata e la gente aumentata, anche la mattina presto, non sono più venuti. Per un po' hanno preferito Lignano Sabbiadoro.

Asafa ha continuato a correre e a vincere, ma solo quando non aveva pressioni, quando non c'era accanto a lui un Gatlin, un Gay, un Bolt. Non è mai stati un cuor di leone. Gli viene dalla storia familiare. Ha perso due fratelli. Non sorride di slancio. Ha cominciato a farlo un po' meccanicamente solo quando doveva allinearsi allo spirito completamente diverso con cui Bolt si stava presentando al mondo. Asafa era quello. Il fulmine triste, il centometrista fragile, il campione musone. Però è stato lui ad aprire la strada del dopo Montgomery, del dopo Laboratorio Balco, il dopo squalifiche, l'era della Giamaica. Senza di lui, senza i suoi record, chissà se Bolt si sarebbe liberato del guscio e avrebbe trovato le motivazioni. Francis saliva sull'albero. Asafa in cima al mondo. E' stata una lezione di vita e d'atletica. E' stato bellissimo. Grazie Asafa.


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